L’ISLAM MISTICO DEGLI ISMAILITI DELL’HINDUKUSH – Pakistan primavera 2025

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Un viaggio veramente unico che vi poterà a conoscere l’affascinante gli Ismailiti e la loro tradizione mistica connessa con il Sufismo sciita.

Per secoli avvolti in Occidente da un’aura di mistero e terrore, legata a figure leggendarie e fosche quali il loro carismatico capo, il Vegliardo della Montagna, e i suoi temibili “assassini” – guerrieri votati al martirio –, gli Ismailiti sono una minoranza religiosa ricca e complessa caratterizzata per la fede indiscussa nella figura dell’Imam – rappresentante terrestre del Profeta e depositario vivente dell’interpretazione esoterica del Corano – e per una spiccata vocazione mistica, destinata a propiziare una tangibile e intima unione tra il fedele e il divino.

Soggiornando in uno dei più bei villaggi della regione e grazie alla conoscenza diretta e prolungata di questo territorio dell’estremo nord del Pakistan, andremo all’incontro della tradizione spirituale di quest’antica comunità connessa con il misticismo di origini persiane e siriane.

 

infos: infos.martino@gmail.com

 

 

“Qualche sera fa Amir Shah mi ha invitato ad ascoltare una séance guidata dal gharba. Una sobria cena, del tè sorseggiato in silenzio, poi l’arrivo degli ospiti invitati per la cerimonia. Uomini che, di giorno, lavorano come uomini e che la sera, quando se ne sente il bisogno o la fede lo domanda, si riuniscono per celebrare le lodi del Profeta e del suo prediletto successore Ali.

Nella piccola stanza che si apre sul giardino interno dell’abitazione di Amir Shah, uno dopo l’altro, gli uomini arrivano. Seduti, si parla. A voce bassa: come quando si prende parte a qualcosa di serio. A qualcosa di vero. Poca la luce. Poca, come quando si assiste a qualcosa di serio. A qualcosa di vero.

Non trascorre molto tempo che Amir prende il testo delle canzoni del repertorio sacro di qui. Con esso appare anche il gharba e il rubab, l’altro importante liuto a collo corto pakistano. Il gharba è anziano, acuminato e talvolta riottoso. Il rubab, apparentemente più giovane, è invece docile, flessuoso e malleabile. A Buni i veri suonatori di gharba sono rimasti in pochi. Pochi anche gli strumenti che ancora funzionano a dovere e che sono capaci di traghettarsi intatti e indelebili di generazione in generazione.

Una serata di gharba e rubab, dunque. Entrambi gli strumenti convergono verso il libro aperto. Ne leggono i testi, ne attingono e distillano le parole facendole uscire dalla carta per diventare oggetti vivi e in movimento. Parole che si aggirano tra le persone che suonano e quelle che cantano. Che le osservano una a una, le scrutano fino a che ne scelgono una. E scegliendola l’adescano, la chiamano a sé. E la persona allora smette di essere solo una persona che canta. Quella sembra mettere le ali e le ali, seguendo una larga spirale, sembrano scendere nelle profondità del cuore della persona.

Le parole diventano pura melodia e la musica, ritmo. Un ritmo che percuote senza battere e che preme senza schiacciare. Un ritmo che penetra nella pelle e che filtra nella carne.

A questo pensavo, quando dicevo che la musica è una brezza e che è nella brezza, e non nell’uragano urlante, che il divino assume la sua forma visibile e si dona come voce. Una forma fatta di sola intimità. Come di uomo a donna, come di uomo a uomo, come di uomo che si specchia nella propria sorgente. Che vi immerge le proprie mani. Che si abbevera. E che, abbeverandosi, non è più bestia ma Dio egli stesso.

Gli uomini rispondono al ritmo divenendo ritmo loro stessi. Inginocchiati sul tappeto ricamato della stanza, come a formare un cerchio approssimativo, oscillano avanti e indietro. Oscillano con gli occhi chiusi come se stessero lì a cullare la propria anima. Come se quella si fosse dischiusa per la prima volta, mettendo gemme e foglie verdi.

Uomini che sembrano ora un branco di bambini barbuti, accecati dalla luce scintillante che risale fresca dai propri cuori. Lì, a guardare e guardarsi, meravigliandosi di essere i pozzi artesiani di tanta altezza. Esserlo ora. Esserlo da sempre. Esserlo, pur avendolo dimenticato.

Gli uomini che oscillano a occhi chiusi, respirano. Un respiro che, minuto dopo minuto, si ancora sempre di più al ritmo della musica. Non è un’ancora, è piuttosto un amo. Quando la musica sente che l’uomo è stato preso, quella richiama dunque la corda. La tira con forza, giro dopo giro. La corda si accorcia sempre di più e quando non resta più nulla, la fissa attorno a un palo invisibile. Gli uomini si dibattono ancora per qualche momento. Si divincolano poi si lasciano andare inermi al potere del suono. Solo il respiro allora resta. Un respiro lento e profondo. Come quello di un’onda che entra attraverso le loro branchie scoperchiate. Come quello di un’onda che si fa largo nel buio di una grotta aperta tra degli scogli marini. Che è dunque suono ed eco al tempo stesso.

Il respiro si accorda al ritmo e diventa una strada. Un cammino, come ora tutto il resto d’altra parte lo è diventato. Quelli presi all’amo non cantano più. Semplicemente respirano pronunciando, senza fine, le parole haqan haq, haqan haq, haqan haq…: …solo Allah è il Vero. Parole pronunciate senza inizio e senza fine. Non soltanto delle parole: un luogo vivo dove immergersi, dimorare, sprofondare.

Altro tempo passa. Chi suona non smette di suonare, chi canta continua a cantare, mentre chi è cominciato a salire lungo la scala ora non è nulla di più che un rantolo di carne inondato dal Vero.

Ancora oggi gli Ismailiti narrano di uomini immersi in questa condizione e volati verso il cielo raggiungendo con il proprio stesso corpo la dimora più alta, il luogo dove Dio regna nascosto dalla propria stessa infinita luce. Non si fatica a crederlo.

Haqan haq, haqan haq…il rito continua. Passo dopo passo, nella notte”.

 

Estratto da: Martino Nicoletti, Cantare tra le mani: un viaggio tra gli Ismailiti dell’Hindukush, Torino, Lindau, 2014

 

 

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